Marras – D’Alba, l’incontro nato da uno scontro
A cura di Gaetano Piazzolla | Foto Gpiazzophotography
L’intervista a due icone del design. Antonio Marras, stilista. Vincenzo D’Alba, architetto e designer di Kiasmo.
Un incontro nato da uno “scontro” di disegni su un foglio di carta che ha dato vita a nuove creazioni che si esprimono nel linguaggio della ceramica, della moda e del fatto a mano. Una “magica unicità” che trova riferimento continuo nelle loro origini che si intrecciano e si completano a vicenda.
– Come vi siete incontrati e quando?
AM: Tre anni fa, durante il Salone del Mobile a Milano, Vincenzo D’Alba e Francesco (Maggiore) mi chiesero di partecipare a un cosiddetto “duetto/duello”: Vincenzo, che era il padrone di casa, mi avrebbe sfidato davanti a un foglio bianco che avremmo dovuto riempire con scritte e disegni, creando così un contatto e un dialogo tra le nostre personalità e i nostri background. Un modo originale per conoscerci.
VDA: Questi “duetti/duelli” sono nati dalla collaborazione con Francesco Maggiore e Francesco Moschini. Vere e proprie partite a scacchi sul disegno, durante le quali ho “sfidato” diversi artisti o architetti: Alvaro Siza, Luigi Ontani, Dario Fo. Tre anni fa, durante il Salone del Mobile, venni a visitare lo spazio “Nonostante Marras” e mi colpì molto, così parlai con Francesco (Maggiore) e decidemmo di proporre ad Antonio (Marras) questo disegno a “quattro mani”. È il disegno e il segno ad aver favorito il nostro incontro.
– Come definireste il vostro lavoro?
AM: Credo di essere la persona meno adatta a definire il mio lavoro, ma direi che mi sento molto artigiano, lavoro con le mani. Non ho una definizione vera e propria di quello che faccio; ho solo una necessità: fare cose. Che si tratti di tappeti o di avere letteralmente le mani in pasta durante la lavorazione della ceramica, poco importa. Mi piace fare.
VDA: E’ impossibile definire la progettazione in maniera univoca, si tratta invece di vederla attraverso un insieme di progetti che hanno a che fare con discipline come l’arte, l’architettura, il disegno e la moda.
– Come avviene il passaggio dalla progettazione alla realizzazione?
AM: (risate) La cosa straordinaria è che con Vincenzo la progettazione è un iter che solitamente non esiste, che si salta direttamente. Dovunque ci troviamo, facciamo cose. Per esempio lavorare la ceramica era un’attività a cui mi sarebbe sempre piaciuto avvicinarmi, ma da cui ero intimidito. Così, quando siamo arrivati nell’azienda dei fratelli Colì (azienda che produce terrecotte) per realizzare le nostre terrecotte (Kiasmo + Marras), Vincenzo aveva molta più confidenza di me con la materia, era più spontaneo. E ispirandomi a lui, mi sono sentito più tranquillo di lanciarmi in questa esperienza nuova ed è stata come una terapia. Ero, e lo sono ancora, completamente ignorante in materia e questo mi ha spinto a muovermi con disinvoltura.
VDA: Non esiste progettazione, ma questo non significa che i concetti siano nati senza un rigore. Semmai sono nati per caso, però un caso nobile, dove se ci fosse stato dietro un tentativo di organizzarlo, si sarebbe persa l’autenticità della collezione. Una progettazione povera dal punto di vista pratico, ma ricca da quello mentale, quindi più profonda ed eterna.
AM: Siamo mossi dalla necessità di rendere ordinato un caos che, in realtà, non esiste. Esiste solamente la volontà di realizzare forme con la pratica minuto dopo minuto e, così, far evolvere gli stessi oggetti.
– Avete un repertorio di immagini su cui lavorate?
AM: Le regioni da cui proveniamo – Sardegna nel mio caso, Puglia in quello di Vincenzo – hanno grandi affinità. La Sardegna è da sempre un luogo ambito, oltre che strategico per il Mediterraneo: un’isola che è stata corteggiata, assediata, stuprata e posseduta da tutti. Dai Fenici fino ai Romani, passando poi per i francesi e gli spagnoli: tutti sono approdati sull’isola lasciando delle tracce. Viene quindi naturale e spontaneo attingere da un patrimonio così ricco e diversificato, quasi senza ricerca.
VDA: Aggiungo che le immagini su cui lavoriamo sono il risultato di un continuo rapporto con la storia e con i materiali. Il nostro repertorio copre un arco di tempo tanto storicamente definito quanto artisticamente imprevedibile.
– La creatività è una dote innata o si può imparare?
AM: Veramente non so cosa sia la creatività. Personalmente mi muovo seguendo l’istinto, con incoscienza e disinvoltura, senza timori e senza nessuna remora. Sempre pronto a nuove sfide e a confronti con materiali e mezzi che non conosco.
VDA: Il fatto di non voler credere alla creatività o di non volerne dare una definizione, credo sia dovuto alla nostra ossessione di produzione che ci accomuna. Altrimenti rispondere a questa domanda con una definizione sarebbe fuorviante e contraddittorio con tutto quello che abbiamo fatto finora.
– Il vostro modo di riferirvi al passato rispetto a quello dei designer che vi hanno preceduto in che modo è cambiato?
AM: Ognuno si esprime nella maniera che ritiene più consona. La fortuna di avere a disposizione questo spazio (Nonostantemarras) che può essere manovrato e sconvolto ogni volta che desideriamo, ci ha permesso di creare, con oggetti differenti e agli antipodi tra loro, quella parola magica che si chiama “armonia”. Questo è ciò che più ci piace: produrre un linguaggio originale mescolando gli elementi più disparati. E anche quello che non viene bene merita il nostro interesse: è proprio questo “fatto male” che affascina e incuriosisce.
VDA: Tutto questo è il risultato di un modo di operare fondato sulla frenesia del fare. Gli effetti collaterali della produzione fanno parte del progetto e spesso lo qualificano diventando imprescindibili.
Tra di voi chi ha la fantasia più libera?
AM: (risate) Non vorrei sbagliarmi, ma il nostro punto di forza è dovuto al fatto che non abbiamo limiti o barriere e ci muoviamo con una libertà assoluta nell’affrontare le cose, vivendo le situazioni nel modo più naturale possibile.
VDM: Tutto quello che facciamo è finalizzato a essere un’opera o un prodotto, per cui avrebbe senso parlare solo di fantasia pratica per evitare riferimenti ad una dimensione intellettualistica. Parlare di libertà non è il nostro obiettivo, come diceva Paul Valéry “una grande libertà nasce da un grande rigore” quindi esistono le regole, ma non si vedono né tantomeno devono vedersi.
– In che cosa eravate bravi da bambini?
VDA: Ero bravo a far nulla fino a 15/16 anni, poi ho iniziato a disegnare quasi per scherzo, finché non è diventato indispensabile e allora non ho più smesso. Però non ricordo di essermi distinto in qualcosa se non nell’ozio, (risate) cosa che sembra abbastanza virtuosa.
AM: Ero bravo nella poesia. Spesso le poesie sono al centro della pagina e il margine bianco intorno mi dava un senso di pace e tranquillità. Inoltre le poesie hanno un ritmo di vuoti e di pieni e questo ritmo io riuscivo a immagazzinarlo. Era l’unico momento in cui mi sentivo bene e potevo distaccarmi dalla realtà.
– Nella vita è meglio restare sempre un po’ bambini?
AM: Sicuramente il mio approccio nelle cose che non conosco è sempre di stupore e meraviglia come quello di un bambino davanti un gioco nuovo.
VDA: è difficile conservare una parte del bambino. Sicuramente la si può ritrovare quando si coltiva una grande cultura e può tornare con quella grazia perduta che si aveva da bambini.
– A parte i duelli/duetti, avete mai pensato di sfidarvi in qualcosa di diverso come una partita a biliardino?
AM: In realtà non è mai successo perché le nostre attività sono così intense che non lo permettono. Inoltre perché tra di noi non c’è neanche questa confidenza (risate). Non abbiamo una conoscenza dei reciproci mondi all’esterno dei momenti di lavoro. Forse questa è la nostra forza.
VDA: Non può esserci questa forma di quotidiano perché noi insieme lavoriamo o disegniamo.
– Quanto è importante il tempo per voi?
AM: Il tempo oggi per me è il lusso più grande. Devo incastrare davvero i minuti per riuscire a fare tutto quello che desidero.
VDA: Il tempo è importante soprattutto quando, come nel nostro caso, ci si occupa di diverse attività. Ma viene naturale sia occuparlo che perderlo.
– I cinque libri più importanti della vostra vita
AM: L’antologia di terza media, l’abbecedario per insegnare l’italiano ai bambini rom dal quale poi è partita la realizzazione di una collezione per una sfilata, Hermann Hesse, l’antologia di Spoon River e il primo libro che ha scritto Patrizia (Marras) intitolato “Mariti”.
VDA: Per me i Cantos Pisani di Ezra Pound e mi piacerebbe non aggiungere altro anche perché non sarebbero solo 5 (risate).
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